La Bellezza che cura,la Fotografia piccola finestra sulla dimensione del sublime.

 

 

 

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Il Paziente che racconta la propria storia al medico, la storia della propria malattia con il carico di disagio e sofferenza che essa comporta non ha niente in apparenza di “ medico-scientifico” nel senso stretto del termine, ma approda in quella dimensione dell’Umano in tutto il suo straordinario mistero. D’altro canto, credo personalmente che privare la medicina di questa dimensione corrisponda a depauperarla paradossalmente della sua stessa efficacia, e per fortuna oggi la scienza stessa che comincia a “guardarsi allo specchio”  grazie alle nuove  frontiere di imaging celebrale nelle Neuroscienze  lo dimostra senza alcun dubbio.

La narrazione è utile al medico non solo per un sostegno di tipo umano, ma lo aiuta a comprendere il contesto in cui la stessa malattia si sviluppa e si evolve, fornendo anche parte della suo aspetto eziologico, compresi indizi utili ad una terapia non solo della specifica patologia, ma di essa in quell’individuo specifico,elementi questi che arrivano a personalizzare gli interventi per aumentarne l’ efficacia.

A questo punto credo sia inutile inoltrarsi nelle mille peculiarità della medicina narrativa, il Dott. Maurizio Turturo medico cardiologo e ideatore di questa straordinaria iniziativa nel suo studio privato, ha sicuramente competenze specifiche di cui io non sono in possesso, ma di cui ho subito il fascino, condividendone subito a pieno le finalità insieme a Raffaele Mastrototaro, ci siamo messi a disposizione dell’ iniziativa mettendo a servizio di questa idea le nostre reciproche capacità. Detto questo, quello che sto cercando di capire è la relazione che esiste come scritto nel titolo tra Bellezza e Cura: può davvero essere utile la bellezza nel complesso sistemico della cura? Il dibattito che si è tenuto all’ inaugurazione della mostra ci fornisce alcuni interessanti indizi sulle possibili risposte. L’Antropologo Felice Di Lernia intervenuto e interrogato dalle domande del moderatore prof. Giuseppe Losapio,sostiene che ci sono più piani  per codificare la bellezza nell’epoca contemporanea e i due principali sono: quello del sistema commerciale che è legato al concetto di consumo ( riferito ad un apparire che si consuma nel tempo stesso che dura il desiderio indotto per condizionamento ) e questo è un riferimento abbastanza comune,ed è purtroppo il più diffuso, intimamente legato ad una dimensione sia della paura di vivere che della morte.

La seconda invece, nel momento in cui riusciamo  a connetterci con il presente e a coglierla, é un esperienza fondamentale nella nostra vita, ed è quella qualità in cui riusciamo ad appagare l’animo, a nutrire il nostro profondo, è quella dimensione che potrebbe coincidere con l’amore e che non solo ci rende facile essere felici, ma che al piacere stesso svincolato dal desiderio e dai condizionamenti genera di per sè senso: questa è l’ autentica Bellezza quella dimensione in cui ci ritroviamo  ad essere armonici con l’ intero universo di cui siamo parte,  e che si potrebbe definire  come  il piacere stesso di essere vivi ed esserne consapevoli come individui senzienti.

I paesaggi di un Islanda poco iconografica fotografati da me,e quelli nascosti e misteriosi colti da Raffaele Mastrototaro sulla Murgia, nonostante la loro lontanza, hanno un filo comune che li unisce  e che va oltre la connotazione geografica o temporale. Nonostante

la diversa sensibilità e il modo di raccontare un paesaggio, entrambi le visioni sono delle sintesi visive di quegli istanti in cui il piacere e l’ armonia sono un’ unica dimensione. Per dirla come la definiva Henri Cartier Bresson, “un attimo di eternità perfetto che attraversa un solo istante, crea un ritmo del mondo che canta il reale”  ( ho un po’ trasformato la definizione senza cambiarne il senso ).

In conclusione in una sala d’aspetto di uno studio medico cardiologico, il tentativo è quello di creare delle piccole finestre che diventano piccoli momenti di contatto con dimensioni dell’altrove, attraverso la bellezza un altrove che dimora in noi come salvezza dall’  omologazione,un alternativa “materica “al flusso incessante della tecnologia, immagini fisse che sono attraverso la stampa la natura finale stessa della fotografia, una possibilità di volgere lo sguardo  ad una cosa a cui stranamente non siamo più abituati ossia delle fotografie piuttosto che delle semplici immagini, un modo di narrare che ha la sua genesi nella poesia.

Tomas Di Terlizzi

 

 

 

 

” Il Viaggio a DUE un equilibrio di confine ” riflessioni libere su strade non asfaltate condivise…

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Viaggiare A DUE, è una danza perpetua delle differenze, ogni volta che si deve scegliere una direzione,o prendere una decisione, stabilire ciò che è meglio è sempre un operazione che non può escludere la soggettività di chi come singolo individuo sceglie cosa è meglio per se stesso. Stabilito questo, si può anche dire che in effetti esiste anche una dimensione di “intersoggettività” dove anche se non in modo perfettamente coincidente due o più individui, con sfumature infinite ma sottili,DSC01674 possono “condividere” il senso profondo di una percezione, inserendolo nello stesso quadro di visione che nell’istante stesso del sentire diventa un affresco unico e temporaneo di condivisione che porta a scelte comuni.

Questa premessa mi è utile per comprendere come una dimensione come quella del viaggio che per antomasia è una dimensione soggettiva e profondamente introspettiva ( in quanto processo di trasformazione profonda legata al momento stesso in cui la si vive) possa essere in parte condivisa nella dimensione di viaggio a due nello specifico un viaggio con la propria compagna , quindi imbastito di quel legame profondo dai confini mai perfettamente definibili che chiamiamo Amore.

Personalmente ho sempre preferito viaggiare solo, forse per la mia passione per la fotografia, forse perchè mi piace il silenzio di una comunicazione che passa attraverso le vibrazioni sottili, e forse anche perchè il viaggio stesso apre una serie di varchi nella mia dimensione profonda, che si palesano durante il cammino in emozioni talmente intense che solo il pianto a volte riesce a riportare in equilibrio quel “parrossismo percettivo” amplificato.

Viaggiando in due, si creano infinite sfumature che si dissolvono più o meno in parte nell’altro dando vita ad una complessa danza dove diventa difficile percepire il confine ( un pò ci si fonde un pò ci si confonde ), difficile evitare questo processo, quando si è così vicini.

La cosa interessante ed inaspettata è quando in quella miriade di forme possibili dello stare nel viaggio in due, viene a crearsi quella dimensione di spazio e silenzio, indotto anche dalla meraviglia stessa che crea quella che potrebbe sembrare una distanza ma altro non è che una percezione intima netta e univoca, dove il focus sulla realtà perde la sua intersoggettività rimanendo silenziosa in ogni uno in modo assestante, e questo genera quella ritmica possibile nel dialogo tra se e l’altro, quel dialogo senza cui non sarebbe possibile l’intimità.

Non c’è dubbio che nel viaggio a due, aumenta la complessità di ogni processo che si attraversa “disperdendo”  così un energia supplementare nel gestire lo stesso, ciò che fa la differenza è la conoscenza “REALE” dell’altro che determina il grado di complessità, ed è proprio del viaggio palesare i gradi di reale conoscenza dell’altro,difficili da sperimentare in modo così vivido, nell’ipertrofico e strutturato quotidiano, cosi il viaggio finisce anche per diventare un viaggio in se stessi e nell’altro, in un continuo rimandarsi a specchio dove ogni maschera si disfa in buona misura e fa posto al volto un pò diverso e meno ammaliante di quello della seduzione, il volto di ciò che si è senza le certezze e le comodità del quotidiano,il volto che si trova faccia a faccia con l ‘ignoto,e il disagio dell’interpretazione di una realtà poco codificata, ma fortemente affascinante, questo stato di cose,dove attraverso un processo di frammentazione e ricostruzione di un identità anche comune, diventa un lavoro di relazione dove ci si sperimenta un pò più nudi del solito, in una dimensione di fisicità unica e non più riproducibile,vissuti intensi che costituiranno una memoria profonda e globale del se in relazione all’altro,una parte importante del processo di integrazione  che regola l’interazione della dimensione di coppia, integrazione possibile nella misura in cui entrambi abbiano un buon grado di autonomia, e accettazione della diversità come risorsa e non come ostacolo al divenire degli eventi,, è evidente che mancando queste caratteristiche si può sopravvivere ad una vacanza ma non al viaggio.

Concludo dicendo che nella mia esperienza, il viaggio per sua natura tende a ” Dividere per Unire”  usando una metafora: come un puzzle sconosciuto che bisogna comporre senza avere immagini di riferimento, un arte creativa che genera nuovi equilibri ed apre nuovi mondi non solo nel viaggio stesso, ma anche in quella dimensione ben più ardua e rara dell’essere coppia senza confondersi nell’idea conforme di quest’ultima, in altre parole Amarsi come dono e non come tornaconto emotivo, in questo la dimensione del viaggio rasenta la saggezza

Tomas Di Terlizzi

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” L’insostenibile leggerezza dell’esserci” Reportage di un Matrimonio sostenibile



In questi ultimi tre giorni, ho riflettuto molto sul significato della parola ” SOSTENIBILE ” proprio mentre percorrevo in bici con la mia compagna Emanuela i 145 km circa attraverso il parco dell’alta Murgia, silenziosi e alla velocità appena superiore a quella della brezza, in uno scenario in cui la percezione dello spazio, sfora d’infinito la finestra del cielo.

Ho pensato che Sostenibile non può che essere un vero e proprio stile di vita, sostenibile è ciò che in quel preciso momento eravamo, pedalando in quella bellezza, verso la bellezza di un evento unico nel suo genere, conciliare armonicamente il conflitto tra: tutela di un sistema in equilibrio che genera la vita e le risorse per tutti, e la variabile dell’essere umano, che cerca la sua autonomia e crescita e proprio nell’estrinsecarsi di questa funzione  diventa la variabile che fa collassare quel iniziale equilibrio non è semplice, è come un funambolo che deve prendere contatto con quella suo fragile equilibrio  sul abisso di scelte possibili che non lo faranno precipitare, e visto che tutto questo l ho pensato mentre pedalavo, perchè non considerare come metafora,la bicicletta mezzo sostenibile per antonomasia, in cui l’equilibrio attraverso la pedalata è unico modo di potersi muovere è  altro non è che un continuo incessante ritrovare equilibri, questo infinito rapportarsi al presente genera il movimento, ed il movimento è vita, e nella vita non può che esserci  il piacere.

Sono Tomas Di Terlizzi, non sono un fotografo di cerimonia,in realtà non sono neanche un fotografo, ma un Maestro  D’arte, ma ad onor del vero mi riconoscono la capacità narrativa di raccontare una storia attraverso quel processo quantico che è la luce, ed il suo sensuale dominio che genera immagini, che comunemente chiamiamo fotografia.

Qualche giorno fà Marzia e Domenico, mi hanno raccontato la loro idea del loro matrimonio auto-costruito e sostenibile di cui in questi giorni si è parlato tanto in una incredibile eco mediatica soprattutto attraverso il web. Mentre li ascoltavo,ho avuto la sensazione che in tutta questa bellezza di intenti, ci fosse una dolce follia del possibile che è un modo di vedere la vita tra contraddizioni ed equilibri funambolici, e questo mi affascina non poco, ho accettato di essere il loro “testimone visivo sostenibile”.

Il giorno del loro matrimonio ho raggiunto In BICI la  magnifica Masseria Cimadomo ne parco dell’alta Murgia e  mi sono lasciato andare al DSC09976 DSC09579 DSC09866 DSC09843 DSC09644 flusso continuo di imprevedibili situazioni, ho cercato di confondermi nel magma pulsante di giornalisti, fotocamere e videocamere, ed in tutto questo mi sono reso invisibile per condizionare il meno possibile il contesto che mi accingevo a raccontare, invisibile per rendere poi visibile ciò che stavo e mi stava impressionando, cercando di cercare il mio punto di vista, scarno il più possibile dal giudizio, e pensandoci ora questo potrebbe essere inteso come un altro concetto di sostenibilità, ossia vedere il mondo e sforzandosi di non giudicarlo.

Al termine di questa intensa esperienza  non so se sono riuscito nel mio intento, forse e meglio lasciar raccontare alle  foto, che nella loro natura di resistenza al tempo, divenendo una memoria solida e pur sempre mutabile di giudizio e sensazioni,un ultima cosa importante che ha il valore di una sostenibilità umana è che il ricavato di questo servizio sarà interamente devoluto al laboratorio sperimentale di attività creative ” I CAMALIONI ” sito nell’opera Don Uva di Bisceglie dove attualmente lavoro come maestro D’arte sperimentando percorsi creativi e relazionali con ragazzi con disabilità psicofisiche, ma questa è una storia a parte di cui magari un giorno vi parlerò.

Tomas Di Terlizzi

Trans Mongolia, un esperimento narrativo di viaggio.

Sorridente. Col fascino di chi è custode di tante storie. Tomas Di Terlizzi ha 45 anni ed è un viaggiatore. Ha girato il Nord Africa in Vespa, l’India e il Nepal in autostop, ha partecipato a un campo di volontariato in Uganda realizzando un reportage sui bambini soldato, ha attraversato l’Europa in moto fino a Capo Nord, ha percorso 22mila chilometri in solitaria dal Perù alla Patagonia cilena.

Maestro d’arte, fotografo, videomaker, partito per la Mongolia lo scorso autunno, sarà ospite dell’associazione di promozione sociale Fucina Domestica ad Andria con il suo “Trans Mongolia – storie di viaggio”, sabato 7 febbraio alle 20.30 e domenica 15 febbraio alle 19.

La Mongolia è il tuo primo viaggio in uno Stato senza accesso al mare?

Sono stato in Paesi che non si affacciano sul mare, ma parliamo di Mitteleuropa. In Mongolia quasi quasi il mare non ti manca perché c’è il deserto. E quindi trovi l’orizzonte, quell’orizzonte che cerchi quando guardi il mare e non puoi scorgere invece in montagna o in città.

Che cos’è il mare in un viaggio?

Il mare è uno spazio di silenzio da attraversare, è immensità da godere, è qualcosa tra te e l’orizzonte degli eventi. È godurioso e turbolento, infatti non ho mai capito il perché del nome Pacifico per un oceano che non ha nulla di mite. E poi ogni mare è diverso.

Perché hai scelto la Mongolia?

Adoro i deserti, paradossalmente li trovo pieni di vita. Della Mongolia mi ha sempre affascinato il suono, la figura degli sciamani, il fatto che si tratta di una terra che è intrappolata di per sé e quindi non può intrappolare i suoi abitanti. Ho rimandato questo viaggio per tanto tempo, poi una mattina mi sono svegliato e ho deciso di andare. Partire per me è sempre un atto di fiducia, e se la concedi la riceverai in cambio.

Raccontaci il tuo autunno in Mongolia

Sono stato lì a ottobre e novembre scorso, non è un periodo turistico. Nelle tende aspettano l’inverno, bevono tanto tè, restano ore a sentire il rumore del fuoco; hanno anche una piccola tv a pannelli solari e il bello è che quando la batteria è scarica si va a dormire.

Una notte c’erano -28°C, ma quando si cammina non si soffre il freddo. Nelle tende ci sono le stufe e si dorme sotto chili di coperte. Anche le tende sono di lana, sono confortevoli, all’interno c’è tutto quello che serve: calore umano, riscaldamento, cibo, acqua…

Al riparo dal freddo, i mongoli raccontano le storie dei loro avi. Le donne sono determinate, toste, guerriere, spesso restano per mesi nelle tende con i figli mentre gli uomini sono lontani. Sono tutti molto legati alla figura di Gengis Khan (creò l’impero più vasto della storia con un esercito di 20mila uomini), di cui mi ha meravigliato il contrasto tra l’animo guerriero e la lungimiranza nei confronti degli stranieri, degli ospiti.

Esistono tanti tipi di viaggiatori. Tu che viaggiatore sei?

Credo siano pochissime le persone che viaggiano; molti fanno vacanza: è più comodo e soprattutto non ci si deve mettere in discussione. Nel viaggio è necessario morire e rinascere ogni volta. Il viaggio è scomodo, talvolta non ti permette di lavarti tutti i giorni perché le circostanze te lo impediscono. Dopo tante partenze è bello accorgersi che ogni volta lascio a casa qualcosa in più. Abbiamo sempre paura di non avere tutto quello che ci serve, e invece usiamo il 10 per cento di quello che portiamo con noi.

Quali mezzi di trasporto prediligi?

Ho viaggiato in Vespa, in bicicletta, in moto, in autobus, in autostop, in treno. Ho amato per esempio i treni dell’India in cui non ci sono le porte e che non sono velocissimi, ma io non avevo fretta. In Nepal salivamo sui tetti degli autobus se all’interno erano pieni. La scomodità nel viaggio è emozionante, ti attira, è divertente, aguzza le capacità. Fino a non essere più considerata scomodità. I turisti non sarebbero mai saliti su quegli autobus…

Hai incontrato viaggiatori come te in giro per il mondo?

Ci riconosciamo subito noi viaggiatori, basta un’occhiata, ci avviciniamo come fossimo attratti da una calamita. Sembriamo socialmente un po’ strani. Si tratta di incontri fugaci, che non hanno bisogno di molte parole, ci si dice il necessario.

Quanto si cambia dopo ogni viaggio?

Viaggiando mi metto in contatto profondo con me stesso. Ogni volta qualcosa lascio e qualcosa trovo, non sono più lo stesso. Cambio parecchio, non so se in meglio. Però lascio tante lacrime durante il cammino e torno un po’ più asciutto. E mi sento un pochino più saggio.

Ne hai uno che hai amato di più?

Non ho un viaggio preferito. È come l’amore, come le donne. Ognuna mi ha dato qualcosa che nessun’altra poteva darmi. Non so scegliere, anche perché ogni volta che torno sono un’altra persona. Sono contento di aver rimandato alcuni viaggi, che richiedevano maggiore maturità. Viaggiare si è trasformato da desiderio a bisogno, è il modo in cui preferisco studiare. Non viaggi solo quando parti, lo fai anche quando torni.

Claudia Ceci

[Foto di Tomas Di Terlizzi]

In nessun posto. Il compromesso moderno del viaggiatore.

< C’è un tempo in cui non sei in nessun posto,vivi un attesa che ti svuota di quello che stai lasciando contemporaneamente alle idee di quello che troverai… è un tempo in cui non ricordi neanche come è fatto il tuo volto, un non-spazio tempo in cui perdi lo status del io, fluttuando in un attesa ai limiti del mondo. >

Scorgo in un interstizio del piccolo finestrino una goccia in agonia tra luce ghiaccio e acqua, e in quello stato di torpore che è un sonno vestito di veglia, una domanda attraversa il mio stato presente delle cose, il mio sentirmi in quel momento insomma ed è: ma quando sono qui a 9000 km di altitudine ad una velocità di 900 km orari, esattamente dove mi trovo? non è propriamente un luogo ma ha più la consistenza di una CONDIZIONE, una condizione apparentemente priva di significato e memoria, un limbo destinato a scomparire e a non lasciare traccia della sua esistenza, a meno che attraverso una situazione traumatica contingente, possa addirittura sublimare e diventare un esperienza paradigmatica per intensità e significato, ma credo che oggi non succederà questo.

In aereo non si viaggia, semplicemente ci si sposta da un posto all’altro, ha qualcosa di simile al teletrasporto, anzi potremmo definirlo ” Limb-trans-port ” un trasporto attraverso una dimensione simile all’immaginario del limbo, nessun attraversamento,sensazioni stabilmente intorpidite, Decollo-Limbo-Atterraggio quasi semplicemente un On-Off, dove l intermezzo non può che essere intrattenimento forzato, dispersione di uno stato di coscienza in crisi, L’ aereo di linea così come è oggi,è il mezzo principe in un mondo che non viaggia più,in cui il tempo disponibile per te stesso è limitato, misurato, scandito come una libera uscita che libera non è.

Ciò che un tempo richiedeva, mesi di attraversamento,con la conseguente magia di trasformazione per la coscienza, che lentamente nei tempi umani attraversava stati e stadi di consapevolezza conseguenti a stati di disgregazione di: forme, pensieri, pregiudizi un continuo flusso di meraviglia che si integra al tuo essere li in quel momento, un presente che sopprime il passato non lasciandogli respiro, un presente che ti mette in contatto con ciò che sei nella tua essenza, tutto questo oggi in aereo non accade, ci si ritrova in un luogo senza esserci realmente arrivati, uno shock di notevole portata di cui non si ha piena consapevolezza, se non in quel disagio diffuso di cui si facciamo  finta di niente impastandolo con l adrenalina del nuovo per l’improvviso.

Riconosco che è la parte che mi piace meno di un viaggio, e riconosco che a volte non posso essendo parte di quella schiera che hanno  una libertà condizionata a tempo, non accedere a questo sistema di cose, ed è così che provo a vederlo dal suo interno a smontarlo, capirlo rendere di per se anche questo un viaggio attraverso la mia consapevolezza anche nel limite delle cose, cosa faccio. cerco di rallentare il mio ritmo più che posso,lascio scorrere la penna con le emozioni, e divento attraverso la scrittura un viaggiatore nel vuoto che attende di risentire il peso della terra e della realtà, e come un assenza nell’assenza che crea una presenza per differenza, più facile farlo che dirlo in effetti, se l aereo è  una delle ‘espressioni più  evidenti dell’immagine di una società strutturata e condizionata dall’economia, il tempo dell’aereo è il tempo della tecnica,che non coincide con quello umano, ma solo con quello economico, ed in questo abbraccio-repulsione che cerchiamo un equilibrio, in cui non troviamo che la vertigine dell’impossibilità, di una strada che sia sostenibile ma sopra tutto umana.

Tomas Di Terlizzi

restare per cambiare con la libertà di amare

Ogni cosa che mi porta lontano ha la capacità di dissimulare ciò che a me è più vicino, ogni volta che viaggio in territori nuovi e impensabili mi ritrovo a vivere un intimità che è propria della quotidianità.
Allora mi chiedo che senso ha viaggiare? che valore c’è nel muoversi verso la diversità, quando quella diversità è come se vivesse in me, in ogni luogo spazio-temporale, perchè tanto sforzo e scomoda passione per ritrovare il conosciuto? la parola più indicata per cominciare a spiegare il significato è “DISTRAZIONE”, ci succede più frequentemente di quanto si possa pensare, ed è quel periodo di coscienza in cui non siamo nella realtà, ma in un cuscinetto ovattato impermeabile a ciò che sta accadendo,siamo semplicemente “ALTROVE”, e ciò che accade ne tempo in cui accade è come se non ci toccasse, lasciandoci orfani di quel vissuto, ma con un senso confuso di qualcosa che si è manifestata.
Personalmente credo che l’esperienza del viaggio ci metta in contatto con quell’universo di connessioni che spesso non riusciamo a cogliere nel quotidiano, e l’esperienza di ritrovarci lontani ma con il sapore di qualcosa di estremamente familiare a noi, sia il tentativo della coscienza di stimolarci ad usare lo stesso criterio di conoscenza nel quotidiano, ossia il “VIAGGIO”, e qui devo riconoscere che sono pochi coloro che ancora sono capaci di viaggiare, e molto più comune trovare chi fa vacanza, che è la dimensione per antonomasia della distrazione, e quindi dell’accumulo di infinite assenze (il che ironicamente spiegherebbe la mole titanica di immagini fotografiche prodotte in quell’intermittenza di dopato non senso, per confermare in modo inconfutabile il proprio vissuto ), la vacanza è agli antipodi del viaggio; comoda, organizzata, e molto cool, garantisce a chi la vive un retrogusto eroico da consumarsi nel tempo imbalsamato del ritorno al quotidiano, per creare un interstizio di gradazione differente nella vita di tutti i giorni.
Il viaggio, invece, è quasi sempre una dimensione che si carica di sfumature molteplici, nelle quali compare anche l’angoscia del travaglio in cui c’è tormentata irrequietezza, scomodità, densità di emozioni contrastanti che vanno dall’estasi alla solitudine, passando per continui adattamenti e assestamenti della coscienza, un continuo dissesto della propria identità culturale e sociale, che ci permette di sperimentare ciò che siamo e non la funzione sociale che generalmente rappresentiamo, il viaggio coincide con la vita nella misura in cui siamo in contatto con ciò che siamo nell’essenza, e questo essere ancorati al nostro destino, ci mette nella condizione di fare del viaggio stesso il nostro punto di partenza, ossia il “RESTARE” connessi al punto di origine per poterlo cambiare, qui in questo nuovo vincolo il punto di origine si fa gravido del mondo intero e in se nella sua metamorfosi, non riconosce più confini, ma solo l infinita connessione di ogni luogo ed essere umano, in altre parole il riconoscere nella consapevolezza, la natura dell’amore che unisce ogni cosa, oltremodo chiamata VITA.

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